
Mi stringeva forte e le mostravo come andare in bici. Sulla mia. Quella rosa senza più rotelle, regalo di papà. Le tenevo la mano quando aveva paura dei mostri. Secondo i suoi calcoli dovevano aver infestato il corridoio di casa cibandosi del buio. Così lasciavo la luce accesa anche di notte, perché uno spicchio di quella arrivasse al suo letto. Per un po’ le bastò la luna. Poi, sempre più spesso, al mattino la ritrovavo accanto a me. Sonnecchiante e soddisfatta. Di quell’incursione riuscita, studiata. Il mio cuscino sapeva di mandorla. E di lei, non di me. Ai pupazzi che ricucivo tagliava la testa. Li aveva incisi tutti, tranne Barbie sirena. La risparmiò per sfilarle le braccia. Ero fiera di lei. Non chiedeva mai. Non ne aveva bisogno. Nessuno al mondo avrebbe potuto mai ottenere da me quello che lei sapeva avere con poco. Era selvatica e filata col miele. Libera. Ho sempre percorso alla cieca ogni strada. Voltandomi a ogni passo sperando che lei ci fosse ancora. Le cedevo il mio posto sull’altalena. Tiravo le corde fino a farle mancare il fiato. Così le piaceva. E restavo a guardarla per ore, stanca, pur di lasciarla giocare da sola. Toccava per prima il portone di casa e per prima abbracciava mia mamma. Ho sempre cercato di darle l’esempio, è sempre stata lei ad insegnarmi qualcosa. E penso all’estate fresca e alla terra, al 1990 e alla terrazza che non finiva mai, mentre la sento gridare. Dall’altra parte del vetro. In una sala travaglio. Chissà se vede il cielo da lì. Io lo cerco da una finestra aperta del reparto. La notte segna il tempo del mistero. La prima stella cadente il miracolo.
L’amore che avevo per Lei adesso è duplicato.